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Iran: l’altra faccia del viaggio, L'incidente

Un viaggio incredibile, tra paesaggi mozzafiato e strade sconosciute, si trasforma in un’esperienza inattesa. Un incidente cambia il ritmo dell’avventura, ma gli imprevisti fanno parte del cammino: ciò che conta davvero è come li affrontiamo.

Iran: The Other Side of the Journey, The Incident
Stefano Brucato

STEFANO

Data

Luglio 2024

Lettura

4 min

Nello scorso articolo sull’Iran vi avevo parlato di Jean e Susi, una coppia tedesca che viaggia con due moto BMW. Ho continuato a viaggiare con loro per circa una settimana, ma una volta arrivati in un paesino dopo Isfahan, dove si trova la Tak Taku Guest House, ci siamo separati. Da lì sono partito con un altro motociclista tedesco, Sasha, con cui avevo pianificato di raggiungere Shiraz. Durante il tragitto da Tak Taku a Shiraz, nel bel mezzo del deserto, una macchina completamente a caso ha deciso di attraversare la strada senza nemmeno guardare. Era uno di quei rettilinei infiniti tipici dell’Iran, senza anima viva in giro, solo io e Sasha. Stavamo viaggiando a una velocità sostenuta, intorno ai 90/100 km/h. L’auto ha sfiorato Sasha per un soffio, ma subito dietro c’ero io e mi ha preso in pieno. Vengo catapultato giù dalla moto, ma mi rialzo subito. Incazzato nero, mi tolgo il casco e lo sbatto con tutta la forza che ho a terra. Chi mi conosce sa bene che non mi arrabbio mai. Subito dopo quel gesto respiro a fondo e mi calmo all’istante. Ero vivo, ancora in piedi, ed è questo che conta. Chiedo al tizio che mi ha investito di aiutarmi a sollevare la moto. La accendo: sembra tutto a posto. Nel frattempo, Sasha non si era accorto di nulla. Non vedendomi più nello specchietto, è tornato indietro e ha capito cosa fosse successo. Proviamo a parlare con l’automobilista, ma non sa nemmeno una parola d’inglese. L’unica cosa che ripeteva era: “No police, no police.” Intanto la gente comincia a fermarsi solo per guardare, e senza che nessuno chiamasse, arriva la polizia. Il tipo che mi ha investito impazzisce e cerca in tutti i modi di mandarli via. I poliziotti iniziano a fare domande, raccolgono i documenti e Sasha mi convince ad andare in ospedale. Dopo tre ore di attesa arriva finalmente l’ambulanza. Sasha, che si è rivelato una persona dal cuore d’oro, mi promette che si prenderà cura della moto e che poi mi raggiungerà in ospedale. Durante il tragitto chiamo casa e dico semplicemente: “Ho avuto un incidente.” Poi, naturalmente, il pessimo internet iraniano smette di funzionare. Credo di aver fatto perdere dieci anni di vita a mia madre. Arrivo in ospedale. Tutti mi guardano come se fossi un alieno. Gente che entra ed esce dalla stanza solo per farmi foto. Persino medici e infermieri che non c’entravano nulla con me si fermavano a osservare.

Possiamo fare tutti i piani che vogliamo, ma l’unica certezza è che qualcosa andrà storto. Ne ero consapevole già prima di partire, ma se sapessimo già tutto che avventura sarebbe...

Per fortuna conosco una guardia dell’ospedale, l’unico a parlare inglese, che mi aiuta traducendo tutto. Mi fanno le radiografie: polso rotto. Secondo loro serviva un’operazione, ma vedendo in che condizioni era l’ospedale non ci penso nemmeno un secondo: decido che sarei tornato in Italia per curarmi. Ormai era notte, eravamo nel nulla e non c’era nemmeno un hotel. Così i militari ci dicono di dormire nella stazione dei vigili del fuoco. Un’esperienza surreale. Salgo in macchina con loro, mentre Sasha ci segue in moto. Alla stazione dei pompieri mi dicono che la mattina successiva avrei dovuto andare alla stazione di polizia per firmare dei documenti. Passo una notte da incubo: dolori ovunque, il polso rotto tenuto fermo solo da un pezzo di cartone, e un caldo insopportabile. Il mattino dopo i militari tornano a prendermi e mi accompagnano alla stazione. C’è anche l’uomo che mi ha investito. La polizia, davanti a lui, mi chiede tranquillamente quanti soldi volessi e mi assicurano che glieli avrebbero fatti dare. Non me la sono sentita. Questo incidente a me costerà forse 1000/2000 euro, un mese di lavoro, ma per lui probabilmente è molto di più. Ho chiesto solo che pagasse il carro attrezzi per riportare la moto a Tak Taku, dove Mohamed, il proprietario della guest house, se ne sarebbe occupato. Firmo una montagna di documenti di cui non capivo nulla. Prenoto un volo per tornare a casa. In testa ho solo un pensiero: questa sarà solo una pausa. Tornerò. Saluto Sasha e lo ringrazio infinitamente. Chiamo un taxi e vado in aeroporto. Dopo un lungo volo, arrivo in Italia. Vado in ospedale. I medici, vedendo come mi avevano “curato” in Iran, si fanno una risata. Confermano la frattura del polso, ma nessuna operazione necessaria: solo tanto riposo. Tutto è bene quel che finisce bene. Ci è voluto un mese prima che tornassi in Iran, ma col senno di poi, senza questo incidente, non mi sarebbero successe molte cose, e probabilmente me ne ha risparmiate altre peggiori. Ho capito che l’attenzione non basta solo nel traffico, serve anche quando attorno a te non c’è nessuno. Questa è una riflessione che faccio ora, ma anche in quel momento, grazie alla mia positività, sapevo che tutto sarebbe andato per il meglio. E così è stato.

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